4 - CONFRATERNITA DEL SS. CROCIFISSO AL BORGO VECCHIO

Ore 16,30 - Parrocchia Maria Santissima di Monserrato (via delle Croci)

Passando dalla città vecchia verso l’asse di quella nuova, piazza “Croci” è il crocevia tra la zona Libertà, che è la vetrina di Palermo, elegante e raffinata, e la zona dell’antico “Borgo Santa Lucia”, oggi “Borgo vecchio”, ultima sponda dei quartieri popolari del centro storico.
In questo luogo da tempo si pratica il culto per l’Addolorata e il Cristo Morto; inclini a questo possente sentimento di religiosità furono alcuni devoti del ceto dei trafficanti, dei maestri e dei padroni di barca che si costituirono nel 1820 in confraternita presso la chiesa parrocchiale di Santa Lucia al Borgo, sotto il titolo della Madonna di Monserrato, come riferisce Gaspare Palermo nella sua guida istruttiva per Palermo e i suoi dintorni realizzata nel 1858.
L’antica chiesetta ottagonale fu fondata nel 1571 ed aveva un bellissimo quadro dipinto da Filippo Paladini nell’altare maggiore dedicato proprio a questa iconografia della Madonna.
Oltre all’altare maggiore questa chiesa possedeva altre due cappelle; quella di sinistra era dedicata secondo un’antica tradizione al Crocifisso, dove stava la sepoltura del giovane sacerdote Bernardo Custos, morto in onore di santità, parroco e fondatore della chiesa, che volle come collegio per le fanciulle del circondario dell’antico borgo, successivamente Vescovo di Mazara.
Francesco Fornaja, nobile palermitano, proprietario dei terreni che portavano la sua denominazione, fu il benefattore della stessa, per la sua particolare devozione alla Madonna del Monserrato venerata in Catalogna, e contribuì con una grossa ed ingente somma alla sua costruzione.
In un secondo tempo, essa fu donata nel 1775 ai padri conventuali di San Francesco che abitavano il convento e la chiesa di Santa Lucia nella strada che conduceva al vecchio molo.
Da quel momento la chiesa assunse una nuova denominazione, dedicandola alla vergine siracusana Lucia, e l’antica statua lignea con l’effigie della Santa, trasferita nell’altare di destra della chiesa, ancora oggi è presente nella nuova chiesa dedicata alla Madonna di Monserrato.
Questa chiesa che per tanti anni fu la parrocchia del Borgo (1600), che si estendeva fuori la cinta muraria della città e si dipanava dal piano delle Croci e alla consolazione limitrofa alla Cala, era ubicata nel piano dell’Ucciardone, proprio alla sinistra dell’entrata del nuovo carcere borbonico e dava le spalle al mare.
Bombardata e distrutta interamente durante il conflitto mondiale del 1943, tutti gli arredi, compresi i simulacri, vennero trasferiti nella nuova sede presso la chiesa dei Dolori di Maria alle Croci, cappella di quello che rimaneva del Rifugio delle povere di Cifuentes, che con il passare degli anni si impiantò in pianta stabile fino ai nostri giorni, divenendo la parrocchia di Maria di Monserrato alle Croci.

Dal seicentesco simulacro del Crocifisso d' autore ignoto, che era custodito nella cappella di sinistra, da tempo venerato dagli abitanti del borgo, scaturì la costituzione di questa Confraternita, come si è detto in precedenza, con il titolo di SS. Crocifisso al Borgo.
A favorire quest’impulso fu l’allora parroco Don Carlo Conigliaro che, accogliendo la richiesta di questi fedeli, chiese il sostegno di Francesco I, Re del Regno delle Due Sicilie, affinché venissero approvati i “capitoli” che la nascente confraternita si fissò di osservare.
Il 10 settembre del 1830 le prescrizioni furono approvate e, tra le regole, si stabilì lo scopo principale della congrega che è tuttora quello di diffondere il culto di Gesù Morto e dell’Addolorata, e di tramandarlo da padre in figlio.
Fu fissata la sua celebrazione il Venerdì Santo con il proposito di portare in processione l’Urna del Crocifisso e l’effigie della Vergine Addolorata.
Il Cristo Morto originariamente aveva le braccia snodabili, particolare questo che consentiva ai confrati il doppio utilizzo del simulacro, sia in croce che nell’urna di vetro.
A tal proposito nel 1930, durante i festeggiamenti del centenario della confraternita, fu utilizzata l’antica croce che ospitava il Crocifisso, situata in uno degli altari laterali rispetto all’altare Maggiore, per essere portato in processione all’interno del distretto parrocchiale; ancora oggi questa croce esiste e sussistono ancora i relativi chiodi d’argento che trattenevano il Cristo alla croce. Essa è conservata presso la sede della confraternita; ogni anno, per la Quaresima, viene listata a lutto e il giorno del Venerdì Santo ostentata ai fedeli.
Da quella data la confraternita sì forni di un’urna di vetro realizzata da un artista locale e nel frattempo si organizzò con una “vara” processionale su cui collocare lo scrigno di vetro e inserirgli il seicentesco simulacro. Nel contempo aveva acquisito la statua dell’Addolorata per la celebrazione religiosa del Venerdì Santo.
La bella effigie del Cristo Morto negli anni è stata più volte rimaneggiata a causa della sua struttura essenzialmente in cartapesta e da alcuni anni ha assunto la sua collocazione definitiva, perdendo la vecchia postura.
.
Il Cristo deposto non conserva più la disposizione di torsione che aveva in precedenza; il suo lungo corpo è disteso dormiente in tutta la sua dimensione, braccia e gambe sono appoggiate e contenute con un rilasciamento naturale.
Sul tronco spogliato, all’altezza del torace, è evidenziata la presenza della ferita del costato, fregiata da una lamina d’argento, dono di un devoto per grazia ricevuta. La tradizione spagnola è richiamata dal lenzuolino bianco ricamato con fregi in oro ad estofados che altro non é che il pittoricissimo perizoma.
La testa, dall’abbondante capigliatura naturale adagiata sul cuscino, non è più reclinata verso le spalle; il suo dolce sguardo è sereno e dolente e guarda in avanti, e il volto è contrassegnato da diversi rivoli di sangue che si dipartono dalla fronte inghirlandata da una corona di spine in argento; gli occhi semichiusi comunicano una tenerissima compassione.
Tutto l’insieme risponde alla tradizionale iconografia di matrice barocca importata dagli antichi colonizzatori spagnoli.
Una grande raggiera che si diparte fin dai piedi avvolge con una luce intensa il corpo statuario della Vergine Addolorata, voluta insistentemente dalla confraternita che, essendo originariamente maschile, si rivolse ad un gruppo di donne affinché si interessasse del suo approntamento, pur rimanendo sempre prerogativa degli uomini trasportarne il fercolo processionale.
Originariamente la statua dell’Addolorata era composta essenzialmente dalla testa, dalle mani e dai piedi; questi ultimi da sempre sono appoggiati su una base di legno, e per il resto la statua è costituita da una intelaiatura di legno che permetteva la sua vestizione con l’applicazione degli abiti.
La Madonna, restaurata da alcuni annie, è leffigie di una giovane donna, alta circa 165 centimetri, con il capo chinato in avanti, con le mani protese e congiunte dove successivamente viene applicato il fazzoletto di pizzo; è vestita di tutto punto, dalla sottoveste al soprabito, dalle pie donne a cui tradizionalmente viene affidato questo delicato compito, senza la presenza degli uomini che non possono interferire sul loro operato, secondo un’antica consuetudine spagnola che voleva che le donne partecipanti a questo rito dovessero essere sposate e fossero assistite da vergini.
L’abito bianco, segno della purezza, richiama la tradizione spagnola, è confezionato con pizzo di seta, ricamato con ornamenti in filo dorato; sulla fascia
che orna i fianchi vi è scritto: “Sante Vierge Des Douleurs Priez Pournous”. Questa fu donata come segno di devozione alla Vergine dalle famiglie Seidita Salvatore e Di Marco Francesco.
Un diadema d’oro con dodici stel
le cinge il capo della Vergine, coperto da un lungo mantello di velluto e raso di seta nera la cui realizzazione per tradizione viene affidata ad alcune famiglie che hanno assunto questo impegno da diversi anni; quello attuale è stato donato dalla famiglia Seidita, con a capo il Signor Domenico.


La pietà popolare e la venerazione per la Vergine hanno spinto ad abbigliare il simulacro con oggetti preziosi quali la collana che ingioiella il collo e il pugnale che orna il petto.
La lunga preparazione, che culmina nella solenne processione dei due fercoli per le vie del quartiere, è preceduta da diversi riti che coinvolgono le consorelle e i confrati, che si sono impegnati alla sua organizzazione, secondo antica usanza che si tramanda da padre in figlio dal lontano 1820, allorchè la confraternita fu costituita.


Il pomeriggio del Venerdì Santo alla sommità della lunga scalinata che precede la chiesa di Santa Maria di Monserrato appare una grande croce ornata da un drappo bianco, segno inevitabile che da lì a poco discenderà, dopo il suono della “troccola”, il sacro corteo; seguono, in apertura del corteo, due “incensieri” vestiti di nero che si fanno strada spargendo il profumato effluvio lungo il tragitto processionale.
Una moltitudine di gente di ogni ceto sociale e di ogni età, palermitani provenienti da altri rioni e non, oppure turisti occasionali, aspetta ammassata nella spaziosa piazza Croci, con apprensiva e composta devozione, la discesa dei due fercoli processionali.

Il rumore della “troccola” rompe il composto silenzio
e il corteo si apre con la discesa dell’urna di vetro con l’effigie del Cristo Morto. L’attenzione è rivolta agli uomini che a fatica discendono il pregiato fercolo in legno massiccio, recentemente restaurato, decorato da bassorilievi dalla fattura in oro, opera del Maestro Salvatore Calascibetta.
Posizionati sotto le stanghe, i confrati vestiti con l’abitino bruno bordato di bianco sorreggono il fercolo inghirlandato da composizioni di fiori bianchi, offerti dai devoti. Troneggia la lunga palma intrecciata, secondo un’antica usanza donata dalla famiglia di qualche confrate che per devozione si presta a quest’incombenza.

Si procede a passi cadenzati e accompagnati dalle note della banda musicale che esegue le marce funebri.
Ad accompagnare l’urna vi sono quattro “Giudei”, due per ogni lato, con le classiche armature che la confraternita fece realizzare nei primi anni del novecento dai maestri “pupari” Mancuso e Argento; il loro stile richiama le armature dei paladini di Francia e tale particolarità ha sempre suscitato un grande interesse.

A lunghezza ravvicinata, un gruppo di giovani donne (vergini) sistemate su due file equidistanti e adornate con tanto di mantello come la Madonna, scorta alcune bimbe vestite per devozione con gli stessi abiti della Madonna.
Esse vanno innanzi al fercolo dell’Addolorata.

La sontuosa “vara” restituita alla originaria fattura dal prof. Antonino Tinaglia alcuni anni addietro, porta tutti i segni della Passione: la Pietà, la Crocifissione e l’imposizione della Corona di spine.
I confrati in abbigliamento regale di color bruno conducono la “vara” dell’Addolorata, anch’essi sotto le lunghe stanghe, si aiutano a vicenda e il pesante fercolo con facilità raggiunge la piazza tra gli applausi della folla e le dolenti note della banda musicale.
La processione, che ha una straordinaria partecipazione popolare, con tante devote che a piedi scalzi e con torce fra le mani, rimettono il loro voto, per grazia ricevuta o per esternare la loro devozione, si incammina per le vie del “Borgo vecchio”, permettendo ai fercoli di raggiungere gli abitanti del gremito quartiere popolare.
Di tanto in tanto vi è una sosta per permettere ai confrati di riposarsi dal gravoso peso e alla gente di avvicinarsi ed assecondare rituali spontanei quali la passata sul viso dei fazzoletti, avvicinare i bambini e i neonati affinché toccati possano essere protetti, il segno della croce baciando i fercoli, un dono in denaro o permettere di raggiungere gli ammalati rimasti in casa.
Il pellegrinare della processione giunge ai margini del distretto parrocchiale, in via Enrico Albanese dove un tempo si trovava l’antica parrocchia di Santa Lucia e dove fu costituita l’attuale confraternita. Ormai è notte, ma ancora si è in tempo per adempiere all’ultimo rituale, forse il più atteso dai detenuti del carcere dell’Ucciardone.
I confrati rivolgono i pesanti fercoli verso le finestre del carcere e, accompagnati dalle note della banda musicale che per l’occasione suona con grande intensità, li sollevano in alto compiendo un inverosimile sforzo, affinché le sacre immagini possano essere viste meglio dai detenuti.
Dalle finestre sbarrate, si intravedono le loro mani nude o che sventolano un fazzoletto bianco e si percepiscono le voci che inneggiano carmi di devozione.
Qui la commozione generale invade l’animo degli astanti, alcuni piangono o si sentono male, altri a voce piena si rivolgono alle sacre effigi affinché possano intercedere per i detenuti di quel luogo di pena.
Dopo questo toccante momento, la processione riprende il suo itinerario verso la parrocchia in cui a tarda notte fa rientro, seguita da una notevole folla di fedeli.

- Testo tratto dal sito Panormus.
- Foto a cura di Carlo di Franco.